Che io pensi, che tu pensi, che egli pensi…pensavo fosse solo congiuntivo e invece è anche Teoria della mente

ALL’INTENO DELLA RIFLESSIONE SULLA TEORIA DELLA MENTE SI PROPONGONO GRUPPI DI INTERSOGGETTIVITA’.

I gruppi di intersoggettività hanno l’obiettivo di sviluppare le capacità di “mentalizzazione”, ovvero le capacità di riflessione consapevole dei processi di attribuzione di pensieri , emozioni e valori all’identità soggettiva di se stessi e degli altri ,nella consapevolezza dei propri e altrui modalità di coping nei processi relazionali.

Sviluppare questa consapevolezza diventa la base per una relazione di interscambio libera e armoniosa, la base sicura per sviluppare il propio potenziale di crescita durante tutta la vita in una prospettiva di formazione permanente.

Allego un articolo molto interessante su cui riflettere….

Mentalization and psychosomatic integration of the Self

Mentalizzazione e integrazione psicosomatica del Sé Franco Baldoni

In: Northoff, G., Farinelli, M, Chattat, R, & Baldoni, F. (Eds.) (2014). La plasticità del Sé. Un approccio neuropsicodinamico. Bologna: Il Mulino, pp. 93-130.

Un argomento familiare

Parlare di mentalizzazione vuol dire parlare di un argomento che sembra di conoscere da sempre. In effetti la consapevolezza di avere un pensiero e un’attività mentale autonoma, separata da quella delle altre persone, si acquisisce a partire dall’infanzia ed è fondamentale per lo sviluppo di un senso di identità consentendo l’attribuzione di un significato psicologico al comportamento umano.

“Cogito ergo sum” recita il famoso sillogismo Cartesiano e la riflessione sulla propria attività di pensiero ha caratterizzato buona parte della filosofia e, in particolare, il pensiero psicologico sin dai suoi inizi.

L’ “osservazione dei propri contenuti psichici”, descrivendo gli stati mentali in termini di consapevolezza o di autoriferimenti, ha caratterizzato il metodo di ricerca del primo laboratorio di psicologia sperimentale, diretto a Lipsia da Wilhelm Wundt (1879), così come un’attività di “introspezione sperimentale sistematica” è stata alla base degli studi svolti, sempre in Germania, a Würzburg, da Oswald Külpe (1895).

Negli stessi anni William James fondava il primo laboratorio USA di psicologia sperimentale e si interrogava sul “pensiero riflessivo”, cioè il “pensare a noi stessi in quanto pensanti” (James 1890), la condizione in cui lo stato mentale di un individuo diventa l’oggetto del suo pensiero. James riteneva che le idee che la mente produce fossero strumenti che permettono all’uomo un dominio sull’ambiente e che la verità rappresenti l’attitudine delle nostre idee ad adattarsi in modo soddisfacente alla realtà. Nel suo approccio pragmatico gli stati mentali vengono chiaramente considerati per i loro effetti sul comportamento umano e sui processi di conoscenza della realtà e di adattamento ambientale (linea di pensiero nota come “empirismo radicale”).

Lo studio della consapevolezza umana di avere stati mentali, quindi, ha caratterizzato il pensiero psicologico fin dai suoi inizi e lo si ritrova come argomento comune a vari indirizzi: psicoanalitico, esistenzialista, comportamentista, cognitivista e, con l’introduzione della cibernetica di secondo ordine e del pensiero costruttivista e costruzionista, anche dell’approccio sistemico.

La parola Mentalizzare (Mentalize) è in uso in Inghilterra da almeno due secoli ed è stata 1

inserita nell’ Oxford English Dictionary nel 1906 con due significati: 1) raffigurarsi o immaginarsi qualcosa nella mente, 2) sviluppare o stimolare la mente. Il temine “mentalizzazione”, però, è stato introdotto in ambito psicologico solo negli anni ‘60-‘70, a opera della psicoanalisi francese, in particolare da Andre Green e da Pierre Marty. Quest’ultimo descrisse una specifica carenza di capacità riflessive, denominandola “pensiero operatorio” (pensée opératoire), in pazienti affetti da malattie psicosomatiche classiche sottoposti a trattamento psicoanalitico [Marty, De M’uzan e David 1963]. Negli anni ’80 un altro psicoanalista francese, Pierre Luquet, discutendo delle diverse forme di organizzazione del pensiero, distinse una “mentalizzazione primaria” (caratterizzata dall’assenza di pensiero riflessivo) da una “mentalizzazione secondaria” di natura simbolica e rappresentativa (osservabile nel gioco, nel sogno e nell’arte). Concetti simili alla mentalizzazione sono stati descritti dallo stesso Freud (1895, 1911), che suddivise i processi mentali in primari e secondari, interpretandoli come il risultato del legame tra energie somatiche e pensiero (qualcosa di non mentale è trasformato in mentale), e da altri psicoanalisti come Hanna Segal, Donald Winnicott (preoccupazione materna primaria, madre sufficientemente buona, mirroring), Wilfred Bion (rêverie materna, funzione alfa, rapporto contenitore/contenuto), Heinz Kohut (interiorizzazione trasmutante), Joyce McDougall, e Daniel Stern (sintonizzazione). Al di fuori della psicoanalisi, per l’elaborazione del costrutto di mentalizzazione sono risultati fondamentali gli studi cognitivisti sulla “teoria della mente” [Premack e Woodruff 1978], molti dei quali hanno riguardato l’autismo [Baron-Cohen 1995] e le ricerche sulla “metacognizione” [Flavell 1976], in particolare quelle sviluppate all’interno del paradigma dell’attaccamento sul “monitoraggio metacognitivo[Main 1991].

Cosa si intende per mentalizzazione

Il concetto di mentalizzazione si riferisce alla capacità di percepire se stessi e gli altri in termini di stati mentali interpretando il comportamento come conseguenza di questi. Si tratta di prestare attenzione agli stati mentali propri e degli altri e attribuire al comportamento una qualità mentale sviluppando una prospettiva psicologica. In modo efficace, gli inglesi sintetizzano il concetto con la frase mind the mind (tieni in mente la mente).

In modo scientificamente più preciso la mentalizzazione è stata definita da Anthony Bateman e Peter Fonagy come il processo mentale attraverso cui un individuo interpreta, implicitamente o esplicitamente, le azioni proprie o degli altri come aventi un significato sulla base di stati mentali intenzionali (desideri, bisogni, sentimenti, credenze e motivazioni personali)” [Bateman, Fonagy 2004, trad. it pp. XV-XVI], oppure, più sinteticamente, come il “percepire

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Immaginativamente o interpretare il comportamento come congiunto con gli stati mentali intenzionali” [Allen, Fonagy e Bateman 2008, trad. it. p.4].

La mentalizzazione è un processo, un’attività psichica, non una capacità statica. Alcuni autori, come Jon Allen [2006], preferiscono, infatti, parlare di “mentalizzare” (mentalizing), utilizzando il verbo piuttosto che il sostantivo. Presupposto di questo processo è la capacità di rappresentare sé e gli altri in termini di stati mentali “intenzionali”, cioè elementi psicologici come desideri, sentimenti, aspettative o convinzioni che sono alla base del comportamento e lo motivano. In seguito a questa capacità le azioni possono essere interpretate come conseguenti a stati mentali e assumere un significato psicologico. Secondo la teoria dell’attaccamento le attribuzioni relative agli stati mentali propri e degli altri vengono interiorizzate sotto forma di “modelli operativi interni” (internal working models) un termine proposto da John Bowlby [1973] che indica le rappresentazioni interne di se stessi, delle proprie figure d’attaccamento e del mondo, come pure delle relazioni che li legano.

Il mentalizzare comporta una componente autoriflessiva (relativa alle rappresentazioni di se stessi) e una interpersonale (legata alla rappresentazione degli altri).

La componente autoriflessiva del mentalizzare ricorda il concetto di mindfulness [Siegel 2007], che nel buddismo zen corrisponde a “saper tener viva la propria consapevolezza nella realtà presente”, anche se nel significato originale questo non si riferisce solo alla mente, ma all’intero organismo. Corrisponde a un particolare stato di coscienza in cui si è presenti totalmente a se stessi, senza che la mente sia influenzata da preoccupazioni, giudizi ed emozioni disturbanti. Nonostante la mindfulness riguardi solo il Sé e non gli altri, costituisce la condizione ottimale per potere mentalizzare, al punto che la mentalizzazione è stata considerata la “mindfulness della mente” [Allen 2006]. Un esempio può essere rappresentato dall’atteggiamento di ascolto dello psicoterapeuta, in cui il flusso del pensiero e delle associazioni scorre liberamente senza essere eccessivamente influenzato dalle contingenze e dai giudizi del mondo esterno.

La capacità di mentalizzare gli stati mentali delle altre persone, cioè la componente interpersonale, è invece alla base dell’empatia (cioè la consapevolezza e la parziale condivisione degli stati mentali dell’altro manifestando la capacità di regolare l’affetto e mantenendo la distinzione tra il sé e l’altro). In assenza di capacità riflessive il comportamento non assume un significato e non è possibile essere empatici.

Il processo della mentalizzazione, quindi, è caratterizzato da due aspetti: 1) percepire gli stati mentali (rappresentarsi gli stati mentali propri e degli altri); 2) interpretare il comportamento sulla base di stati mentali intenzionali.

Si distinguono, inoltre, una mentalizzazione esplicita e una implicita [Allen 2006].

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La mentalizzazione esplicita corrisponde al “pensare e parlare degli stati mentali” propri e degli altri, è conscia, legata al linguaggio verbale e tende ad assumere il carattere di una narrazione. Può essere più facilmente appresa culturalmente (attraverso modelli e stereotipi sociali) o con l’esperienza (in famiglia, con gli amici, a scuola, sul lavoro o in psicoterapia), ma anche imitata o falsificata attraverso atteggiamenti solo apparentemente mentalizzanti.

La mentalizzazione implicita, al contrario, è una “mentalizzazione intuitiva, procedurale, automatica e non conscia”, è maggiormente legata al comportamento non verbale e anch’essa può riguardare sia sé (senso del Sé, affettività mentalizzata) che gli altri. Si manifesta in modo spontaneo nella capacità di cambiare turno in una conversazione, quando si reagisce alle emozioni delle altre persone, o quando si utilizza un comportamento non verbale (uno sguardo significativo o un gesto espressivo, ad esempio accarezzare o toccare una parte del corpo dell’altro, come il volto, una spalla, una mano o una gamba) con la chiara intenzione di comunicare un proprio stato mentale o la comprensione dello stato mentale dell’altro [Baldoni 2013]. Questa forma implicita di mentalizzazione è espressione di un Sé che “vive” il proprio corpo, e ricorda il “Sé minimale” (minimal self) descritto da Georg Northoff, cioè un Sé basato sul corpo e sui suoi processi fisiologici. Nel caso di una mentalizzazione implicita l’esperienza di questa forma basilare di Sé, pur precedendo ogni riflessione e attivazione di funzioni di ordine superiore, al contempo è integrata coerentemente e in modo armonioso con le espressioni del Sé più complesse che originano dall’esperienza e che sono caratterizzate da consapevolezza (il “Sé fenomenologico” o phenomenal self) (cfr. capitolo Northoff).

Non esiste un confine definito tra mentalizzazione esplicita e implicita. Bisogna considerare, inoltre, che i trattamenti psicoterapeutici, compresi quelli basati sul costrutto di mentalizzazione e di attaccamento [Bateman e Fonagy 2004; Allen e Fonagy 2006; Wallin 2007; Allen, Fonagy e Bateman 2008; Midgley e Vrouda 2012; Baldoni 2013], mirano a incrementare soprattutto le capacità riflessive esplicite [Michels 2006]. Per la sua natura spontanea, non consapevole e procedurale, infatti, la mentalizzazione implicita è più difficile da riconoscere, da descrivere e da modificare attraverso interventi verbali diretti di tipo interpretativo o cognitivo-comportamentale. In ogni caso la mentalizzazione, occupandosi della comprensione degli stati mentali propri e degli altri, è stata considerata il più importante fattore comune di tutti i trattamenti psicoterapeutici [Allen, Fonagy e Bateman 2008].

Assumere un atteggiamento psicologico mentalizzante costituisce un notevole vantaggio in termini evoluzionistici, in quanto permette di comprendere meglio le proprie reazioni e andare oltre le apparenze nel valutare il comportamento degli altri, interpretando con maggiore successo le loro intenzioni. Bisogna però considerare che le capacità di insight hanno sempre dei limiti e che gli stati

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Mentali altrui possono essere solo ipotizzati, in quanto non è possibile avere la certezza di quello che passa per la mente di una persona. La pretesa di sapere quello che un altro pensa non è espressione di una mentalizzazione, ma piuttosto del contrario. Non tutti gli stati emotivi, inoltre, implicano necessariamente un processo di mentalizzazione. In alcuni casi si può essere travolti da un’emozione senza riuscire ad attribuirle un significato psicologico (come durante un attacco di panico), altre volte mentalizzare è inutile, eccessivamente dispendioso o anche pericoloso.

Oltre a permettere una comprensione del comportamento proprio e altrui, la mentalizzazione favorisce la rappresentazione psicologica e la simbolizzazione del proprio stato interiore ed è quindi determinante per l’organizzazione e l’integrazione psicosomatica del Sé. Mentalizzare, infatti, non solo permette l’automonitoraggio (il riflettere sul proprio pensiero e sul proprio comportamento) e l’esperienza di self-agency (il riconoscersi come soggetto responsabile e protagonista delle proprie azioni), ma anche la regolazione e il controllo delle emozioni e degli impulsi (compresi gli stati somatici ad essi correlati), risultando fondamentale per una valida regolazione psicosomatica e un’adeguata gestione dello stress [Baldoni 2010].

Jaak Panksepp, inoltre, ha messo in evidenza come il Sé (e di conseguenza i processi di mentalizzazione che lo caratterizzano), non si limita alla regolazione e alla rappresentazione di un organismo, ma si presenta come un fenomeno relazionale “intersoggettivo” che connette il nostro organismo al mondo esterno (cfr. Alcaro e Panksepp, in questo volume). L’esperienza di Sé, infine, non riguarda solo il qui ed ora, ma persone, eventi e situazioni che trascendono la nostra esperienza immediata, cioè il Sé è radicato nel passato, vive il presente ed è proiettato nel futuro. In questo modo possiamo immaginarci quello che passa, è passato o passerà per la mente delle persone, anche se non ne abbiamo una percezione diretta, possiamo considerare alternative alla realtà e rappresentarci degli scenari che riguardano un futuro possibile o ipotetico1.

Valutare la mentalizzazione

Negli ultimi 20 anni l’argomento della mentalizzazione ha riscontrato un grande interesse da parte di ricercatori e clinici di diversi orientamenti teorici grazie agli studi svolti all’interno del paradigma dell’attaccamento dallo psicoanalista inglese Peter Fonagy, il quale, assieme a Mary Target, Howard Steele e Miriam Steele, ha sviluppato il costrutto di Funzione Riflessiva [Fonagy et al. 1991; Fonagy, Target 2001] che rappresenta l’operazionalizzazione a scopo di ricerca del

1 Riguardo alla all’importanza per l’essere umano di costruirsi delle rappresentazioni mentali astratte e ipotetiche la Construal Level Theory (CLT) [Liberman e Trope, 2008] sostiene che maggiore è la distanza psicologica degli oggetti, situazioni ed eventi, maggiore è il livello di astrazione con il quale sono percepiti mentalmente. Al contrario, una vicinanza psicologica favorisce una rappresentazione più concreta.

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Concetto di mentalizzazione, anche se dal punto di vista clinico i due sostantivi possono essere considerati sinonimi. Il termine è stato utilizzato, infatti, per identificare una dimensione psicologica misurabile tramite la Reflective Functioning Scale (RF) [Fonagy et al. 1998], applicata alla Adult Attachment Interview (AAI), un’intervista semistrutturata per la valutazione dell’attaccamento adulto. La RF permette la valutazione della mentalizzazione come dimensione individuale seguendo alcuni criteri che permettono di attribuire un punteggio complessivo che va da -1 (RF negativa) a +9 (RF eccezionale). La RF viene applicata anche ad altre interviste simili alla AAI, come la Parent Development Interview (PDI), che valuta la rappresentazione che una madre ha del proprio bambino, di sé come genitore e della propria relazione con il figlio e permette di studiare la “funzione riflessiva genitoriale” secondo il modello di Arietta Slade [Slade 2010] e la Current Relationship Interview (CRI) [Zaccagnini, Messina e Zavattini 2008], che valuta lo stato della mente riguardo l’attaccamento nei legami sentimentali attuali, come quello di coppia.

In psicoterapia individuale le capacità di mentalizzazione di un paziente possono essere valutate tramite la Metacognitive Assessment Scale (MAS) o Scala di Valutazione della Metacognizione (S.Va.M.) [Carcione e Semerari 2006] che fornisce un profilo della capacità di mentalizzazione attraverso varie dimensioni (autoriflessività, comprensione della mente altrui, decentramento, integrazione e mastery).

I processi di mentalizzazione possono essere anche considerati seguendo una prospettiva sistemica, in quanto implicano una componente interpersonale, riportano al concetto cibernetico di retroazione (feedback positivo e negativo) e si riferiscono a stati mentali, comportamenti e facoltà che si sviluppano e si evidenziano come risposta all’altro all’interno di una relazione [Baldoni 2010]. Le capacità di mentalizzazione, quindi, possono essere valutate non solo come caratteristica di un singolo individuo, ma anche come espressione di una relazione all’interno di un sistema (legame di attaccamento, coppia, famiglia, psicoterapia).

Un modello che valuta i processi di mentalizzazione in questa prospettiva è il Mentalization Assessment in Psychotherapy (MAP) [Baldoni 2014] che analizza le capacità riflessive manifestate da pazienti e terapeuti all’interno di una seduta di consultazione o di psicoterapia (individuale, di coppia, di gruppo o familiare). La metodologia si avvale dell’analisi sistematica della comunicazione verbale come risulta dalla trascrizione integrale della registrazione audio o audiovisiva della seduta e fornisce indicazioni utili per l’assessment clinico e la valutazione del processo terapeutico. Il MAP, la cui versione applicata alla terapia familiare è definita Reflective Function in the Family (RFF), è compatibile con vari indirizzi teorici e può essere utilizzato in un contesto terapeutico di orientamento psicoanalitico, sistemico, cognitivista o cognitivo- comportamentale.

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La Tab. 1 riassume i principali metodi di valutazione della mentalizzazione.

Tab. 1 – La valutazione della mentalizzazione

Il substrato neurobiologico della mentalizzazione

I processi di mentalizzazione sono molto complessi e richiedono una capacità di regolazione sofisticata e flessibile delle emozioni e degli stati somatici a loro correlati.

Le ricerche hanno dimostrato che l’emisfero cerebrale destro costituisce il substrato neurobiologico del sistema di attaccamento e della capacità di regolazione delle emozioni [Shore e Shore 2008; Shore 2013]. Un ruolo fondamentale per le capacità di mentalizzazione è svolto, in questo ambito, dalle aree orbitali e mediali della corteccia prefrontale (compresa la corteccia orbitofrontale, che si estende fino alle aree ventromediali), importanti per la rappresentazione implicita ed esplicita degli stati mentali delle altre persone, per la gestione delle relazioni interpersonali (comprese quelle di attaccamento), delle capacità di cooperazione, dell’aggressività sociale, del comportamento morale e del senso di responsabilità, al punto che queste aree della neocorteccia sono state considerate il “substrato neurale della vita sociale” [Goldberg 2001]. La corteccia orbitofrontale rappresenta anche una zona critica per l’elaborazione e il monitoraggio

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Delle esperienze passate e attuali (compreso il loro valore affettivo e sociale) e per il controllo dell’umore [Cavada e Shultz 2000].

Attraverso una serie di studi di neuroimaging basati sul costrutto di self-reference effect (SRE), che hanno valutato se uno stimolo o un’esperienza vengano considerati pertinenti oppure estranei al Sé (Cfr. cap. Northoff)), è stato dimostrato che nei processi di rappresentazione del Sé svolgono un ruolo fondamentale una serie di strutture localizzate nella linea mediana del cervello (tra cui la corteccia prefrontale ventro e dorso mediale, varie aree della corteccia cingolata e il precuneo), denominate nel loro complesso “Strutture Corticali Mediali” (Cortical Midline Structures, CMS). Tra le diverse funzioni, queste aree cerebrali permettono di attribuire un significato personale ai ricordi delle esperienze passate, venendo a svolgere un ruolo importante nella memoria autobiografica, fondamentale per i processi di mentalizzazione.

Un ruolo molto importante, inoltre, è svolto dall’amigdala, che è regolata dall’attività della corteccia prefrontale e, assieme all’ipotalamo e all’ippocampo, rappresenta una struttura neuroanatomica dei processi di memoria procedurale e automatica alla base della mentalizzazione implicita [Herpertz et al. 2001] e svolge una funzione significativa nella regolazione dello stress e delle emozioni. L’amigdala è importante per l’attribuzione di un significato emotivo a uno stimolo e per l’associazione dello stimolo con la sua pregnanza e intensità, per questo è un’area cerebrale particolarmente significativa per l’elaborazione degli eventi dolorosi (la sua dimensione aumenta nei soggetti deprivati e traumatizzati). L’amigdala svolge un’azione attivante sull’asse ipotalamo- ipofisi-surrene (HPA) intervenendo nella risposta allo stress (mentre, al contrario, la corteccia prefrontale mediale e l’ippocampo svolgono una funzione inibente) e influenza i processi decisionali in quanto permette la rappresentazione di una ricompensa (cfr. cap. Alexopoulos e Doering).

I processi di mentalizzazione, quindi, risultano complessi e in relazione con la qualità delle esperienze di attaccamento. La corteccia prefrontale mediale agisce all’interno del sistema limbico (assieme all’amigdala, al giro del cingolo e all’insula), che rappresenta il substrato neurobiologico delle emozioni, e si trova in una zona di convergenza tra strutture cerebrali corticali e sottocorticali [Matarazzo e Zammuner 2009]. A livello della corteccia prefrontale le informazioni provenienti dall’ambiente esterno sono integrate con quelle dell’ambiente interno (percezioni somatiche, stati tensionali). Questa integrazione permette lo stabilirsi di una connessione tra ambiente esterno ed emozioni e rappresenta il substrato per la rappresentazione interiorizzata di una relazione oggettuale, basata su una rappresentazione di Sé, una rappresentazione dell’oggetto e la loro connessione con stati affettivi. Questa attività dell’area orbitofrontale, è stata considerata alla base dello sviluppo dei modelli operativi interni di attaccamento [Schore 2001; 2013].

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La corteccia prefrontale non sembra attiva alla nascita. Nel corso del primo anno di vita, però, sotto l’influenza delle esperienze di attaccamento, si verifica una progressiva maturazione di tutto il sistema limbico, comprese le aree prefrontali mediali [Schore 2000]. Le esperienze di attaccamento, quindi, contribuiscono a plasmare le strutture cerebrali alla base del comportamento sociale e della regolazione emotiva, influendo direttamente sulla maturazione dei sistemi relativi alle capacità mentalizzanti e alla gestione dello stress. Come anticipato da Bowlby nei suoi studi sugli effetti della deprivazione materna e sui bambini istituzionalizzati e ospedalizzati, la ricerca neuroscientifica contemporanea ha confermato l’importanza del legame precoce del neonato con il proprio caregiver, in quanto dalla qualità e dalla continuità di questa relazione deriva la maturazione delle aree cerebrali che influenzeranno le successive capacità di regolare le emozioni e di gestire le relazioni sociali, comprese quelle di attaccamento. L’amigdala e la corteccia prefrontale mediale, comunque, mantengono nel tempo un’elevata plasticità, pertanto le esperienze di attaccamento possono influenzare la capacità cerebrale di regolare le emozioni per tutta la vita.

Oltre alla corteccia prefrontale mediale, alle altre strutture corticali mediane (CMS) e all’amigdala, altre aree cerebrali che contribuiscono ai processi di mentalizzazione sono: 1) la corteccia ippocampale: anch’essa importante per la memoria autobiografica e per la regolazione delle emozioni e dello stress (è stata evidenziata un’inibizione del suo funzionamento o un’atrofia nei soggetti che hanno subito abusi o maltrattamenti e in pazienti affetti da disturbi borderline di personalità) [Teicher et al. 2003]; 2) il lobo temporale, che permette il riconoscimento delle espressioni facciali; 3) la corteccia cingolata anteriore, che svolge una funzione nella mentalizzazione del Sé in un contesto di attivazione emozionale [Damasio 1999]; 4) l’insula, che collega il tronco encefalico con la neocorteccia e agisce come una sorta di “corteccia interocettiva”, integrando le informazioni derivanti dall’attività fisiologica somatica con i segnali corticali superiori di tipo emozionale, comportamentale e motivazionale (crf. cap. Porcelli).

Infine, per la rappresentazione degli stati mentali degli altri, cioè la componente empatica della mentalizzazione, sembra svolgere un ruolo importante il sistema dei neuroni specchio (mirror neuron system) che nell’essere umano sarebbe responsabile non solo della capacità di comprendere e ripetere i comportamenti degli altri, ma anche di anticiparne le intenzioni (inserendo le azioni in un contesto e attribuendo loro un significato) e condividerne gli stati mentali grazie all’attivazione degli stessi circuiti neuronali [Gallese 2003]. Allen e Fonagy [2006] hanno ipotizzato che le strutture neurobiologiche coinvolte nei processi di mentalizzazione potrebbero essere organizzate su un sistema a due livelli: uno corticale prefrontale, responsabile delle rappresentazioni più esplicite e dichiarative, e quello dei neuroni specchio, che permette una mentalizzazione più immediata e diretta che è alla base dell’empatia.

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Mentalizzazione e sviluppo del Sé

Le facoltà mentalizzanti sono fondamentali per la regolazione delle emozioni e la loro elaborazione in quegli stati mentali più complessi che chiamiamo sentimenti o affetti [Baldoni, 2010] (vedi anche cap. Porcelli).

Le emozioni (emotions), sono condizioni di attivazione corporea su base biologica, innate e geneticamente programmate, mediate dal sistema limbico e dalle strutture sottocorticali. La capacità di provare emozioni è comune a molte specie animali (è particolarmente evidente nei mammiferi) e si è selezionata nel corso dell’evoluzione in quanto favorisce l’adattamento e la sopravvivenza svolgendo un importante ruolo motivazionale. Esperimenti condotti in una prospettiva neuroetologica da Jaak Panksepp [1998] hanno dimostrato l’esistenza di una serie di “Sistemi Operativi Emozionali” innati, individuando i circuiti cerebrali responsabili della loro attivazione e organizzazione (cfr. cap. Alcaro e Panksepp). La stimolazione di questi sistemi attiva una serie di risposte somatiche e comportamentali che sono caratteristiche di quella emozione. Attualmente sono stati descritti sette sistemi emozionali di base: Desiderio/Ricerca, Rabbia, Paura, Panico/Angoscia da Separazione, Amore/Accudimento, Gioia/Gioco e Bramosia Sessuale [Panksepp 2005]. Alcuni di questi sistemi sono stati descritti non solo nei mammiferi, compreso l’uomo, ma anche negli uccelli e nei rettili. Determinati sistemi, come quello di desiderio/ricerca o quello della bramosia sessuale, sono caratterizzati da stati emotivi positivi, che producono sensazioni piacevoli e, quindi, vengono ricercati. Altri, come quello di rabbia o di paura, producono stati emotivi negativi che tendono ad essere evitati. Queste emozioni di base possono essere considerate delle “disposizioni intenzionali”, in quanto sotto la spinta di un’emozione (ad esempio la paura o la bramosia sessuale) l’organismo dell’animale si modifica e il suo comportamento si organizza per raggiungere al meglio uno scopo preciso (evitare un pericolo, segnalare un bisogno, ricercare un partner per l’accoppiamento).

I sentimenti (feelings) o affetti (affects), invece, sono manifestazioni psicologiche complesse, più tipiche della specie umana, che implicano un elaborazione cognitiva e un vissuto soggettivo conseguenti all’attività della neocorteccia, in particolare delle aree prefrontali. I sentimenti permettono di divenire consapevoli di uno stato emotivo, di regolarlo e di manifestarlo intenzionalmente agli altri in modo verbale o non verbale. Le emozioni che caratterizzano i sistemi operativi emozionali sono alla base dei sentimenti, ma si manifestano come stati non consapevoli di attivazione corporea e possono assumere un significato psicologico solo attraverso un processo di elaborazione simbolica e mentale. Secondo Solms e Panksepp [2012] la stretta associazione tra i comportamenti attivati dalle emozioni e gli stati mentali affettivi indica che l’attivazione dei sistemi

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Operativi emozionali produce una forma primitiva di coscienza da loro definita “protocoscienza affettiva” (cfr. cap. Alcaro e Panksepp). Questo stato protocosciente del Sé, oltre che dai sistemi emozionali di base, sarebbe influenzato dalla percezione enterocettiva, relativa al proprio corpo, e da quella esterocettiva, relativa all’ambiente esterno. In particolare, la percezione e la regolazione degli stati somatici enterocettivi costituirebbero le funzioni fondamentali del “proto-Sé” (o “Sé corporeo”) descritto da Antonio Damasio [2010] e sarebbero accompagnate da generiche sensazioni piacevoli o spiacevoli sulla base della specifico stato di rilassamento o di tensione viscerale. In ogni caso, prima dello sviluppo di capacità mentalizzanti la rappresentazione mentale di sé e degli altri e la regolazione delle attività corporee conseguenti all’attivazione emozionale possono essere solo parziali.

Esperimenti condotti con tecniche di elettrostimolazione hanno dimostrato che le strutture neurobiologiche dei sistemi emozionali di base sono localizzate in aree cerebrali filogeneticamente molto antiche che comprendono parti del tronco encefalico, alcuni nuclei dell’ipotalamo e varie regioni del proencefalo (tra cui lo striato ventrale e l’amigdala estesa). La stimolazione di tali aree, denominate nel loro insieme “Strutture Sottocorticali Mediali” (Subcortical Medline Structures, SCMS), comporta l’emergere di specifiche emozioni di base [Liotti e Panksepp 2004; Northoff et al. 2009]. Queste aree, quindi, costituirebbero la base della protocoscienza affettiva descritta da Solms e Panksepp. La stretta relazione neurobiologica e funzionale tra SCMS e strutture corticali mediali (CMS) [Northoff e Panksepp 2008], permetterebbe di acquisire la capacità di rappresentare Sé e il mondo, favorendo lo sviluppo di un Sé immaginativo, che consente di utilizzare l’immaginazione, il gioco e il sogno per meglio adattarsi all’ambiente interno ed esterno. Il Proto-Sé (o Sé-corporeo) descritto da Damasio è sostanzialmente solo espressione degli stati enterocettivi relativi al corpo e i sentimenti (o affetti) sono la rappresentazione mentale dell’attività somatica che accompagna le emozioni. Invece Solms e Panksepp considerano i sistemi emozionali di base come “disposizioni intenzionali” che <<proiettano l’organismo fuori dal proprio corpo, in una dimensione relazionale al confine tra l’interno e l’esterno>> (cfr. cap. Alcaro e Panksepp). Le emozioni, cioè, generano affetti non solo relativi a ciò che accade all’interno dell’organismo, ma anche a quello che accade o può accadere <<all’interno di un campo che include l’organismo e il suo ambiente>>. Gli stati affettivi, quindi, potrebbero essere l’espressione di specifici “pattern neuro dinamici” che si sviluppano nelle SCMS per poi diffondersi alle altre aree neuronali e all’intero organismo condizionandone l’attività nel rapporto con il mondo. Per quanto Solms e Panksepp offrano una visione di un organismo molto più in relazione dinamica con l’ambiente esterno, questa idea richiama l’esistenza di “rappresentazioni disposizionali” (dispositional representations, DR) già avanzata da Damasio [1994], cioè di rappresentazioni complesse legate a specifici pattern di attività

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Neurologici e all’attività di sistemi di memoria differenti che predispongono l’organismo a reagire in un determinato modo. Questa posizione è oggi condivisa da molti ricercatori e all’interno del Modello Dinamico-Maturativo dell’attaccamento e dell’adattamento (Dynamic-Maturational Model, DMM) [Crittenden 2008] ha modificato la nozione di modelli operativi interni avanzata da Bowlby aggiornandola ai risultati più attuali delle neuroscienze [Crittenden, Dallos 2014].

Come si è detto, quindi, le capacità di mentalizzazione sono profondamente legate al rapporto dell’individuo con l’ambiente, in particolare alla qualità delle relazioni primarie [Fonagy e Target 2001; Ammaniti e Gallese 2014] e fanno riferimento alle stesse aree e funzioni cerebrali che sottostanno ai processi di attaccamento (in particolare all’attività della corteccia prefrontale). Le capacità di mentalizzazione dei genitori, assieme alla loro “sensibilità”, cioè alla capacità di favorire il benessere della prole interpretandone i bisogni e rispondendo in modo appropriato, costituiscono i maggiori predittori della qualità sicura dell’attaccamento. Ricerche basate sulla somministrazione di Adult Attachment Interview, infatti, hanno evidenziato che i genitori capaci di parlare delle proprie emozioni e dei propri processi di pensiero, in riferimento soprattutto alle esperienze significative della propria infanzia, hanno maggiori probabilità di avere dei figli con una configurazione di attaccamento sicuro [Fonagy et al. 1991]. Per un genitore, inoltre, è importante manifestare una mind-mindedness, cioè l’inclinazione a trattare il proprio bambino come un essere dotato di una mente, una funzione studiata in particolare da Elisabeth Meins [Meins et al. 2002] che sembra a propria volta favorire nel figlio lo sviluppo di un attaccamento sicuro e di una teoria della mente. Questa capacità del caregiver si manifesta anche nei confronti di bambini molto piccoli.

A questo proposito è illuminante la Teoria del Biofeedback Sociale del Rispecchiamento Affettivo elaborata dal ricercatore ungherese György Gergely e dall’americano John Watson [1996, 1999], che da tempo collaborano con il gruppo inglese dell’Anna Freud Centre guidato da Peter Fonagy [Fonagy et al. 2002]. Secondo questo approccio, basato su numerosi dati di ricerca relativi alla microanalisi di videoregistrazioni della relazione tra madre e bambino, il neonato, all’inizio, non ha nessuna consapevolezza di sé e i vissuti relativi alle proprie emozioni e agli stati fisiologici sono profondamente influenzati dagli stimoli dell’ambiente esterno. Se il neonato ha fame, ad esempio, l’abbassamento del livello degli zuccheri nel sangue produce alterazioni del metabolismo e dell’attività gastrointestinale che si traducono in un disagio (il bambino piange e si agita). A questo punto diventa importante la reazione del caregiver. Una madre sensibile si avvicina al figlio, lo prende in braccio, interpreta i suoi bisogni e gli parla (spesso con voce infantile) come se il neonato avesse dei pensieri e capisse il significato delle parole (cioè gli attribuisce degli stati mentali intenzionali). “Tesoro, hai fame, vero? Adesso prepariamo la pappa!”. La mamma così gli offre il seno (o il biberon) e il bambino, dopo avere mangiato e iniziato la digestione, si calma e si

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Addormenta. Per il neonato la rappresentazione finale di cosa voglia dire avere fame, mangiare ed essere sazi è la conseguenza di questa esperienza complessa (e ripetuta nel tempo) in cui la risposta del genitore costituisce una parte fondamentale. Il neonato, quindi, impara a differenziare i pattern fisiologici e viscerali di stimolazione propriocettiva che accompagnano le diverse emozioni attraverso gli stimoli offerti dal caregiver (in particolare le espressioni del volto, le percezioni olfattive e tattili, il rispecchiamento vocale e il comportamento motorio) e questo contribuisce a una graduale costituzione di un senso del Sé. In questo modo una percezione fisiologica di fame, di freddo o di un’emozione come la rabbia o la gioia acquisiscono un graduale significato psicologico sulla base dei comportamenti del genitore nel momento in cui si prende cura del neonato [Baldoni 2010].

Questo processo di rispecchiamento all’interno della relazione di attaccamento è ulteriormente favorito da un vissuto gradevole di efficacia che si genera nella mente del bambino. Ricerche svolte in ambito neurobiologico, infatti, hanno evidenziato che la visione della madre favorisce da parte del cervello del neonato il rilascio di endorfine [Panksepp, Siviy e Normansell 1985], sostanze che, utilizzando come mediatore la dopamina, agiscono sulle regioni cerebrali sottocorticali del cosiddetto circuito della ricompensa, che amplifica le sensazioni positive e produce una sensazione di piacevolezza correlata alle relazioni sociali [Schore 1994; Mundo 2009].

L’interiorizzazione della risposta di rispecchiamento della madre (favorita dall’attivazione del sistemi comportamentali di accudimento e di attaccamento e dalla stimolazione dei circuiti di ricompensa) permette al bambino di attribuire un significato al proprio stato di attivazione emozionale sviluppando una rappresentazione psicologica secondaria. In questo processo l’interiorizzazione della risposta del caregiver assume la funzione di un organizzatore di uno stato del Sé e permette di regolare l’attivazione emozionale, in quanto l’esperienza percettiva iniziale assume un significato psicologico divenendo qualcosa di distinto e di pensabile [Baldoni 2010]. Gli stati di attivazione dell’organismo conseguenti alla fame, al sonno, alla rabbia, alla gioia, infatti, vengono integrati dal neonato con le rappresentazioni percettive non solo di sé, ma anche del caregiver (ad esempio il volto della madre o il suono della sua voce), assieme alla rappresentazione degli eventi che li accompagnano. Le emozioni e gli stati fisiologici loro correlati, come sottolineato da Panksepp [1998], quindi, possono evocare pensieri e stati mentali più o meno complessi i quali, a loro volta e in senso contrario, possono facilmente evocare emozioni e reazioni fisiologiche influenzando l’attività somatica e il comportamento (cfr. cap. Porcelli). In questo modo l’attività psichica e quella somatica si presentano come aspetti dinamici di un organismo complesso che si influenzano vicendevolmente organizzandosi a livelli diversi di influenza e di consapevolezza.

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Il particolare rapporto di “intersoggettività” che è alla base del legame di attaccamento tra bambino e caregiver, quindi, svolge un ruolo decisivo per lo sviluppo di un senso di Sé e la regolazione degli stati mentali e delle reazioni somatiche correlate [Fonagy et al. 2002; Ammaniti e Gallese 2014], divenendo la matrice delle future relazioni sociali e della capacità di entrare in contatto affettivo con gli altri.

Come aveva già intuito Jung [1951], inoltre, risulta evidente che il Sé si presenta come un processo dinamico, piuttosto che come un’entità statica. Posizione condivisa anche da Damasio [2010], secondo il quale al processo di costituzione del Sé contribuisce l’esperienza di un osservatore che percepisce il proprio organismo come un oggetto dinamico con la propria attività mentale, il proprio comportamento e la propria storia, e quella di un Sé conoscitore che diviene il soggetto della conoscenza. Nel suo complesso, questo processo che è al centro delle nostre esperienze ci permette di riflettere su di esse (crf. Cap. De Coro). Come vedremo nelle pagine successive, inoltre, il processo di rappresentazione del Sé non è stabile, ma si organizza dinamicamente a livelli differenti in relazione ai diversi momenti dell’esistenza.

Lo psicoanalista Wilfred Bion [1967] aveva colto questa dinamica parlando della particolare funzione “alfa” svolta dalla madre (sulla base della propria capacità di rêverie). Il neonato (attraverso il meccanismo di identificazione proiettiva) si libera delle parti di sé alle quali non riesce ad attribuire un significato (elementi beta) facendoli percepire alla madre, la quale li trasforma in qualcosa di pensabile (elementi alfa) e li restituisce al proprio figlio (funzione alfa). Questa esperienza per Bion è alla base dello sviluppo del pensiero del bambino e il meccanismo di identificazione proiettiva, in questo modo, viene a costituire la prima forma di comunicazione e il prototipo di ogni relazione emotiva.

La sensibilità genitoriale e lo sviluppo dell’attaccamento sono quindi fenomeni strettamente connessi, in quanto la prima influenza la qualità dell’altro. Le ricerche, inoltre, hanno evidenziato che per lo sviluppo del neonato il livello di sensibilità dei genitori deve essere adeguato, ma non perfetto. Sembra, infatti, che le informazioni emotive e cognitive siano acquisite in modo coerente dal bambino quando il suo stato mentale è riflesso dal caregiver in modo accurato, ma senza un’intensità e una precisione eccessivi. La necessità di una riflessione non perfetta dello stato mentale del bambino è evidente, ad esempio, nella tendenza da parte degli adulti di rivolgersi ai bambini piccoli alterando la propria voce e assumendo toni infantili caricaturali e irrealistici. Le discrepanze tra espressione da parte del caregiver dello stato mentale del bambino e quello che viene percepito dal bambino in modo introspettivo contribuiscono in questo modo alla differenziazione tra rappresentazione del Sé e dell’altro.

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Questo particolare valore positivo dell’imperfezione umana era già stato riconosciuto da Donald Winnicott [1956] il quale riteneva che il compito di una madre non fosse essere perfetta, ma sufficientemente buona (o sufficientemente devota). Dopo un primo momento in cui è necessario creare nel neonato l’illusione che il mondo esterno sia in funzione dei suoi bisogni, infatti, la madre, attraverso le proprie imperfezioni (ad esempio non essere sempre disponibile quando il bambino lo desidera), deve esporre il figlio alle difficoltà della vita ponendolo di fronte alle sfide della realtà esterna. Per Winnicott questo processo di disillusione deve avvenire gradualmente in funzione delle crescenti capacità del bambino di tollerare le frustrazioni e di adattarsi all’ambiente. Ciò permette di mantenere un contatto con gli aspetti autentici del proprio Sé (il “vero Sé”) e di sviluppare una graduale integrazione psicosomatica in cui si sviluppa un Sé allo stesso tempo psichico e somatico, cioè un senso di esistenza nel proprio corpo in cui le percezioni somatiche sono rappresentate mentalmente. Quando il genitore e l’ambiente risultano troppo imperfetti e superano le capacità di adattamento del bambino, si manifestano, infatti, gravi conseguenze come un stato di depressione o lo sviluppo di un “falso Sé” patologico caratterizzato da una particolare “scissione mente-corpo” che espone alla manifestazione di malattie e scompensi psicosomatici [Winnicott 1954].

Se l’ambiente relazionale e le capacità di rispecchiamento manifestate dal caregiver all’interno della relazione di attaccamento sono adeguate, il neonato può sviluppare una graduale rappresentazione del Sé accompagnata da una capacità sempre maggiore di regolare in modo autonomo le emozioni e le reazioni somatiche che le caratterizzano. Si manifesta quindi una progressiva integrazione psicosomatica tra percezioni conseguenti all’attività corporea e rappresentazioni secondarie legate a processi della neocorteccia. Un’emozione come la rabbia, ad esempio, può essere percepita come una condizione psicologica complessa. Si può divenire consapevoli di essere arrabbiati, distinguerla da altre emozioni (ad esempio la paura), attribuirgli significati simbolici e attivare altri stati mentali (ad esempio un senso di colpa). Si può ricordare un episodio in cui la rabbia è stata manifestata in modo più o meno adattivo, inadeguato o pericoloso e possono essere valutati comportamenti alternativi più o meno efficaci in base alla propria esperienza passata e alla valutazione del contesto attuale. Tutto questo rende l’emozione “rabbia” un sentimento più complesso che può essere pensato e parzialmente regolato grazie a una sua elaborazione da parte della neocorteccia. Alcuni di questi processi possono essere consapevoli, ma per la maggior parte sono automatici e inconsci (o preconsci). Il risultato finale comporta una maggiore capacità di regolazione emozionale e, di conseguenza, di adattamento nei confronti delle difficoltà della vita (quella che comunemente chiamiamo resistenza allo stress).

La consapevolezza e la regolazione dei propri stati mentali è accompagnata da una maggiore consapevolezza degli stati mentali delle altre persone. Questa acquisizione è influenzata non solo

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Dalle capacità mentalizzanti e di rispecchiamento manifestate dal caregiver all’interno di una relazione di attaccamento [Meins et al 2002], ma anche dallo sviluppo del sistema nervoso centrale. Nella nostra specie, in condizioni di accudimento sufficientemente adeguate, la maggior parte dei bambini manifesta verso i 4 anni una “Teoria della Mente” [Premack e Woodruff 1978; Baron- Cohen 1995], cioè la consapevolezza che la propria mente è separata da quella degli altri. Fino a quel momento il bambino si comporta come se non ci fossero differenze tra il proprio pensiero e quello della madre. Possedere una teoria della mente, invece, permette di spiegare il comportamento degli altri sulla base di conoscenze, convinzioni e desideri che possono essere diversi dai propri. Una delle conseguenze più evidenti di questa capacità è la scoperta da parte del bambino di una nuova importante strategia di adattamento: la possibilità di mentire (non avrebbe senso raccontare una bugia senza la consapevolezza di potere trarre in inganno l’altra persona). L’acquisizione di una teoria della mente può essere facilmente dimostrata attraverso il superamento di compiti di falsa credenza come la prova di Sally e Anna [Baron-Cohen, Leslie e Frith 1985] in cui, con l’aiuto di disegni o di pupazzi, si rappresenta una scena che ha per protagonisti due bambine. Sally ha un cestino e Anna una scatola, Sally mette una palla nel cestino poi esce a fare una passeggiata. A questo punto Anna, sposta la palla dal cestino alla scatola. Sally ritorna e vuole giocare con la palla, dove la cercherà? Il bambino che non ha ancora raggiunto la teoria della mente fornirà, paradossalmente, la risposta “giusta” (cioè che Sally cercherà la palla nella scatola, dove realmente si trova), in quanto non può capire che la bambina non può rendersi conto dell’inganno.

Mentre il neonato, si caratterizza per un “Sé corporeo” (non psicologico), in quanto influenzato da percezioni non mentalizzate prevalentemente somatiche, in pochi anni, all’interno della relazione di attaccamento e di rispecchiamento con un caregiver sensibile e mentalizzante, il bambino sviluppa una teoria della mente e un “Sé psicologico” (riflessivo) [Fonagy, Moran e Target 1993; Fonagy e Target 1997], dotato della capacità di pensare a sé e agli altri in termini di stati mentali. Una buona regolazione emozionale (espressione di una valida integrazione psicosomatica), accompagnata da una valida gestione dello stress e un attaccamento relativamente sicuro (Tipo B), sono il risultato finale di questo processo (vedi Fig. 1).

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Fig. 1 – Mentalizzazione e sviluppo del Sé (Fonte: Baldoni 2010, modificato)

Al contrario, lo sviluppo di un attaccamento insicuro (cioè di una configurazione di attaccamento che permette di adattarsi ad un contesto insicuro) può essere la conseguenza della carenza di capacità mentalizzanti e di rispecchiamento dell’adulto. Un genitore con attaccamento distanziante può risultare incapace di comprendere e riflettere le emozioni del figlio, mentre uno preoccupato può rappresentarle in modo troppo intenso. In entrambi i casi il bambino non riesce a interiorizzare una rappresentazione adeguata del proprio stato mentale. Il processo di sviluppo di un Sé psicologico può essere impedito o rallentato non necessariamente in conseguenza delle caratteristiche genitoriali, ma per tutte le vicissitudini della vita (malattie, lutti, emarginazione sociale, gravi problemi economici) che possono esporre il bambino e la sua famiglia a pericoli e carenze interferendo con la relazione genitore-bambino.

Quando il Sé non si organizza in modo sufficientemente psicologico, la capacità di mentalizzare, e di conseguenza, di regolare le emozioni e gestire la risposta allo stress, è compromessa. In questi casi si possono attivare le due modalità difensive principali sulle quali si organizzano le forme di attaccamento insicuro: 1) il distanziamento degli affetti negativi (rabbia, paura, vulnerabilità, eccitazione sessuale), che è alla base della configurazione di attaccamento insicuro distanziante-evitante (tipo A) e 2) la manifestazione intensificata degli affetti negativi, in particolare la rabbia, che è una caratteristica dell’attaccamento insicuro ambivalente-preoccupato (tipo C).

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Le difficoltà di mentalizzazione, inoltre, possono avere conseguenze gravi sul controllo delle emozioni e dei loro correlati somatici. Queste condizioni, infatti, sono spesso caratterizzate da (vedi Fig. 1): attivazione di reazioni difensive generalizzate, automatiche e non mentalizzate, quali quelle di attacco/fuga e conservazione/ritiro (vedi oltre), espressione di tratti alessitimici o di falso Sé, alterazioni del comportamento di malattia o Abnormal Illness Behaviour (disturbi di somatizzazione, sindromi mediche funzionali, ipocondria) (vedi cap. Porcelli), patologie psichiche (autismo, disturbi di personalità, disturbi del comportamento alimentare, attacchi di panico, depressione), disturbi da dipendenza patologica (addiction disorders), basso controllo degli impulsi (acting out comportamentali), comportamenti aggressivi e antisociali (bullismo, vandalismo, violenza individuale o collettiva, abusi di tipo sessuale), difficoltà relazionali (di coppia, lavorative, sociali) e maggiore vulnerabilità allo stress e ai traumi [Fonagy, Target 2001; Allen e Fonagy, 2006; Jurist, Slade e Bergner 2008; Baldoni 2010, 2013; Caretti, Craparo e Schimmenti 2013].

Livelli di mentalizzazione e rappresentazioni del Sé

I processi di mentalizzazione si attivano e si organizzano in modo differente in funzione dello sviluppo individuale, delle condizioni dell’organismo e delle specifiche necessità di adattamento all’ambiente. Il passaggio tra diversi stati di organizzazione dell’elaborazione degli stati mentali avviene in modo dinamico ed è una chiara espressione della plasticità dei processi mentali e dei meccanismi neuronali che li caratterizzano. La regolazione neurochimica della corteccia prefrontale, infatti, è in relazione con l’attività di tutto il sistema limbico e delle strutture corticali mediali (SCM) ed è complementare a quella della corteccia posteriore e delle strutture sottocorticali (vedi Fig. 2). Quando l’attivazione cerebrale supera un certo livello si attiva una sorta di “interruttore neurochimico” difensivo [Arnsten 1998; Mayes 2000] che protegge da un eccesso di tensione mentale. Questa reazione (mediata dai recettori alfa-2 della norepinefrina e D1 della dopamina) disconnette funzionalmente la corteccia prefrontale modificando il funzionamento del sistema nervoso centrale da una modalità mentalizzante dinamica e complessa (che richiede tempo e può esporre a un pericolo) ad altre più automatiche, veloci e geneticamente determinate quali la reazione difensiva di “attacco/fuga” (fight/flight), che mobilizza le riserve energetiche attivando l’organismo al fine di combattere o fuggire dal pericolo, o quella di “conservazione/ritiro” (o di immobilizzazione o freezing) il cui fine è resistere nel tempo inibendo il metabolismo e riducendo ogni forma di spreco energetico [Baldoni 2010]. Queste reazioni difensive generalizzate, filogeneticamente più antiche, sono caratterizzate dell’attivazione non modulata dei sistemi emozionali di base e dipendono da informazioni mnemoniche procedurali non consapevoli attivate

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Nell’amigdala e gestite dalle aree cerebrali posteriori e dalle strutture sottocorticali mediali (SCMS)2.

Questa modalità di funzionamento non mentalizzante che, come si è detto, si attiva nei momenti in cui si è esposti a stati di tensione emotiva eccessivi, protegge dal dolore mentale, è reversibile e si manifesta sia in condizioni normali che patologiche. I diversi livelli di organizzazione, da quello mentalizzante alla disconnessione prefrontale caratterizzata da reazioni automatiche, sono accompagnati da diversi livelli di percezione del Sé che vanno dalla rappresentazione di un Sé psicologico (caratterizzato da una capacità di riconoscere sé e gli altri sulla base di stati mentali), sino a una modalità di rappresentazione focalizzata sugli aspetti somatici caratteristica di un Sé corporeo.

Il Sé psicologico (o riflessivo) [Fonagy, Moran e Target 1993] è un Sé dotato di immaginazione e di una capacità di rappresentare se stessi e gli altri in termini di stati mentali, e ricorda il “Sé immaginativo” descritto da Panksepp (cfr. cap. Alcaro e Panksepp) e le manifestazioni del Sé più complesse che originano dall’esperienza e che sono caratterizzate da consapevolezza descritte da Northoff come “Sé fenomenologico” (o phenomenal self) (cfr. capitolo Northoff).

Il Sé corporeo è un Sé fisico, pre-riflessivo e non psicologico [Fonagy, Moran e Target 1993] che ricorda il “proto-Sé” descritto da Antonio Damasio [2010], in quanto è focalizzato sugli stati enterocettivi relativi al proprio corpo, nonostante, come sottolineato da Solms e Panksepp, le emozioni di base, conseguenti all’attivazione delle “Strutture Sottocorticali Mediali” (SCMS), possano essere accompagnate da stati “protoaffettivi” primitivi (cfr. cap Alcaro e Pankksepp). Come si è detto nelle pagine precedenti, però, nel caso di una buona integrazione tra rappresentazioni psicologiche e corporee, il Sé corporeo si presenta come un Sé che vive nel corpo, cioè un “Sé minimale” (minimal self) basato sul corpo e sui suoi processi fisiologici, ma integrato in modo coerente e armonioso con un “Sé fenomenologico” più complesso (o phenomenal self) che origina dall’esperienza e che è caratterizzato da consapevolezza (cfr. capitolo Northoff). Questo permette, ad esempio, comportamenti che sono espressione di una sofisticata mentalizzazione implicita, non consapevoli e su base procedurale, ma coerenti con gli aspetti rappresentativi

2 In questi processi svolge un ruolo fondamentale il Sistema Nervoso Autonomo, sia per la componente simpatica che parasimpatica. Secondo la Teoria Polivagale di Stephen Porges [2011] le reazioni di calma, di sicurezza, di inibizione dell’aggressività e di disponibilità affettiva, relazionale e sociale, caratteristiche degli stati di mentalizzazione e delle relazioni di attaccamento, sarebbero gestite dalle fibre mielinizzate del nervo vago. Queste fibre svolgerebbero un’azione inibente sulle reazioni difensive antiche e geneticamente determinate di fight/flight (mediate dal sistema nervoso simpatico) e di immobilizzazione ( freezing) (mediate dalle fibre non mielinizzate del nervo vago), garantendo uno stato di calma e di buona disposizione verso le relazioni affettive e sociali, comprese quelle di attaccamento. Quando l’azione inibente delle fibre vagali mielinizzate non si manifesta, le reazioni difensive generalizzate si attivano in modo automatico e il senso di sicurezza e la disponibilità affettiva e sociale vengono meno.

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superiori. Questa integrazione tra Sé fisico e Sé psicologico, inoltre, garantirebbe non solo un senso di autenticità (come evidenziato da Winnicott con il suo concetto di “integrazione psicosomatica”), ma si presenta come un fenomeno relazionale “intersoggettivo” che permette al Sé di rappresentarsi come un organismo in relazione con il mondo (cfr. Alcaro e Panksepp, in questo volume).

Seguendo il concetti di rappresentazioni disposizionali (DR) esposto nelle pagine precedenti, cioè di pattern organizzati di attività neurologica che predispongono l’organismo ad attivarsi in modo specifico, possiamo immaginare una sequenza di questi pattern che progressivamente passa da una forma disposizionale “protoconscia” (o preconscia) e non verbale, ad altre più complesse e integrate di natura verbale e conscia 3.

Le rappresentazioni (o le rappresentazioni disposizionali) relative a un Sé psicologico (più consapevole, verbale e integrato) o un Sé corporeo (più inconsapevole e non verbale), quindi, possono interagire tra loro in modo dinamico integrandosi e attivandosi in modo più o meno evidente nei diversi momenti dell’esistenza [Baldoni 2010]. Ad esempio se stiamo soffrendo per una delusione sentimentale o siamo coinvolti in una relazione sociale ci rappresentiamo maggiormente in modo psicologico, se siamo impegnati nell’apprendimento di un nuovo esercizio fisico o abbiamo urtato con il gomito contro uno spigolo ci percepiamo maggiormente per le nostre rappresentazioni corporee.

Diversamente, nel caso in cui i processi di mentalizzazione siano bloccati o inibiti (per disturbi evoluti, psicopatologici o degenerativi), il Sé corporeo non è integrato con un’attività mentale superiore che permetta consapevolezza, pensiero, simbolizzazione e ricordi. Il Sé, quindi, si percepisce solo per gli aspetti somatici senza che sia possibile attribuire loro un significato e regolare le emozioni e i processi fisiologici che ne sono alla base.

3 In questo senso, nel già citato Modello Dinamico-Maturativo dell’attaccamento e dell’adattamento (DMM), vengono considerate otto forme differenti di DR che procedono da un’organizzazione non consapevole a una conscia e integrata e che possono interagire tra loro in modo multiplo e dinamico [Crittenden e Dallos 2014]:

  1. a)  tre preconscie e non verbali: quella corporea (percepire il corpo), quella procedurale (che riguarda come sappiamo fare una cosa, ad esempio suonare uno strumento musicale o parlare una lingua) e quella per immagini (riguarda la rappresentazione di una percezione come un particolare odore, un suono o una immagine visiva);
  2. b)  tre consce e verbali: il linguaggio corporeo (sono stanco, mi sento teso), la rappresentazione semantica (che si riferisce a cosa sono le cose) e il linguaggio connotativo (che permette di parlare agli altri evocando in loro delle emozioni);
  3. c)  due consce, verbali e integrate; episodica (che integra informazioni consce e preconsce su determinati eventi) e l’integrazione riflessiva (che confronta e integra tutte le rappresentazioni per raggiungerne una più completa e coerente).

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Fig. 2 – Relazioni tra corteccia prefrontale, sistema limbico e strutture sottocorticali

Quando non si mentalizza

Mentalizzare non è sempre possibile e non è necessariamente un’attività che aumenta l’adattamento e protegge dai pericoli.

Mentalizzare è un processo impegnativo e in alcuni casi manca il tempo per una riflessione complessa e sofisticata, la situazione deve essere quindi affrontata attivando reazioni più immediate ed efficaci. Di fronte a un pericolo improvviso, ad esempio, non c’è tempo per pensare, e la nostra sopravvivenza dipende dalla capacità di reagire velocemente in modo automatico e non riflessivo. I processi di mentalizzazione sono inibiti anche quando le emozioni sono troppo intense e improvvise, come nel caso di un forte stress o di un evento traumatico, oppure di un eccesso di rabbia o di eccitazione sessuale. Lo stesso vale per una condizione di intensa stanchezza o di noia. Anche gli alcolici e le altre sostanze psicotrope, come gli psicofarmaci e le droghe, alterano le risposte emotive (intensificandole o inibendole) interferendo con le capacità riflessive.

Vi sono situazioni, poi, in cui un’attività psicologica di mentalizzazione può risultare non adattiva in quanto aumenta la fatica e la sofferenza psichica senza offrire particolari vantaggi o soluzioni efficaci. E’ il caso di persone sottoposte a limitazione della propria libertà, come pazienti affetti da malattie croniche che devono trascorrere lunghi periodi in ospedale oppure di carcerati. In tali casi un’inibizione delle proprie attività riflessive può proteggere dal dolore mentale. In queste

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persone, infatti, sono stati descritti maggiori livelli di alessitimia, una dimensione nella quale le capacità di mentalizzazione sono ridotte (vedi cap. Porcelli).

I bambini, le persone con problemi intellettivi o di immaturità e i pazienti con disturbi psicotici o di personalità, inoltre, sperimentano una tensione emozionale che richiede una maggiore attivazione delle aree prefrontali e divengono di conseguenza più vulnerabili agli stress emotivi e alle difficoltà relazionali, per cui attivano più frequentemente risposte comportamentali e difensive primitive (comportamenti compulsivi o aggressivi, disorientamento, dissociazione, reazioni di panico) conseguenti a modalità di funzionamento non mentalizzante.

I processi riflessivi sono irrimediabilmente compromessi anche quando le aree prefrontali sono danneggiate in conseguenza di traumi, patologie vascolari, processi degenerativi e demenze. Nei pazienti affetti da morbo di Alzhaimer, ad esempio, queste zone cerebrali sono tra le prime a deteriorarsi. In questi ultimi casi si perde una capacità che prima si possedeva e che non è più possibile ripristinare. Per relazionarsi adeguatamente con questi pazienti, e per curarli adeguatamente, bisogna organizzare il trattamento tenendo conto di questo limite (vedi cap. Chattat e Farinelli).

  1. Se manca il tempo per riflettere
  2. Quando le emozioni sono troppo intense (stress elevato, situazioni di pericolo, eccitazione sessuale, rabbia)
  3. Se si è troppo stanchi o annoiati
  4. Sotto l’effetto di sostanze psicotrope (alcool, psicofarmaci, droghe)
  5. In condizioni in cui la propria autonomia è fortemente limitata (lunghe ospedalizzazioni, immobilità, pazienti dializzati o in attesa di trapianti, regime carcerario)
  6. Se il livello di disconnessione funzionale prefrontale è troppo basso (con la manifestazione di una scarsa tolleranza alle frustrazioni, ad esempio nei bambini o in adulti con disturbi intellettivi o psicopatologici)
  7. Quando le aree cerebrali prefrontali sono compromesse (traumi, patologie tumorali o vascolari, processi degenerativi, demenze)

Tab. 2 – Condizioni in cui la mentalizzazione è inibita o impedita

In molte condizioni, quindi, i processi di mentalizzazione tendono ad essere inibiti o bloccati (con una conseguente disconnessione funzionale dell’area prefrontale) (vedi Tab. 2). Alcune di queste situazioni sono di origine fisiologica (tutti a volte non mentalizziamo), altre sono la

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conseguenza di una psicopatologia. La Fig. 3 illustra i diversi livelli di elaborazione emozionale e integrazione psicosomatica con le conseguenti rappresentazioni del Sé che vanno da un Sé psicologico (riflessivo) a uno corporeo (non psicologico).

Cosa accade quando aumenta la tensione emotiva e non si è in grado di mentalizzare? Come abbiamo visto, possono attivarsi reazioni difensive più veloci, automatiche e immediate, come quelle geneticamente determinate di tipo attacco/fuga o conservazione/ritiro (immobilizzazione). Altre reazioni comuni sono gli acting out comportamentali conseguenti al mancato controllo degli impulsi (atti aggressivi, attacchi di panico, fughe, agitazione psicomotoria, disperazione) o la manifestazione di sindromi dissociative (amnesie, fughe, disturbo dissociativo dell’identità o personalità multiple, disturbo di depersonalizzazione) atte a proteggere dalle conseguenze traumatiche della tensione mentale.

La mancanza di una adeguata mentalizzazione, inoltre, comporta un problema di integrazione psicosomatica. Le reazioni corporee che caratterizzano le emozioni, infatti, non sono sottoposte a regolazione e non sono integrate con la vita psichica, in quanto le emozioni non sono elaborate dalla neocorteccia e non assumono, quindi, un significato psicologico di sentimenti. In questi casi può manifestarsi una separazione intellettualizzata dell’attività mentale dalle esperienze corporee e un carente riconoscimento ed espressione delle emozioni simili alle condizioni descritte da Winnicott come “falso Sé”, da Pierre Marty come “pensiero operatorio” (pensée opératoire) e da Peter Sifneos e John Nemiah come “alessitimia”. Ne consegue la tendenza a manifestare alterazioni del comportamento di malattia quali lamentele somatiche, preoccupazioni ipocondriache, disturbi di somatizzazione e sindromi mediche funzionali, oltre che una maggiore suscettibilità alle malattie e agli effetti somatici dello stress [Baldoni 2010] (vedi anche cap. Porcelli).

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Fig. 3 – Livelli di mentalizzazione e integrazione psicosomatica del Sé

Regolatori esterni delle emozioni e dipendenze patologiche

Una scarsa o inibita capacità di mentalizzare, impedendo la rappresentazione e il controllo delle emozioni sul piano psicologico, può portare a percepire gli stati tensionali relativi all’attivazione dei sistemi emozionali in modo prevalentemente somatico e indurre a comportamenti più o meno efficaci ed adattivi nel tentativo di regolarli (intensificandoli o inibendoli) [Baldoni 2010].

Le ricerche hanno dimostrato che le cure materne sono fondamentali non solo per l’alimentazione o la protezione della prole, ma anche per le continue sollecitazioni corporee e emozionali alle quali è sottoposto il neonato. Nei mammiferi, gli studi condotti da Myron Hofer sui ratti [1995, 2001] hanno dimostrato che le stimolazioni fornite dalla madre agiscono da regolatori esterni (o regolatori nascosti, hidden regulators) di una serie di funzioni fisiologiche. Variando l’intensità e la frequenza degli stimoli (contatto con il corpo materno, ritmo della poppata, quantità del latte, stimolazione cutanea, movimenti e spostamenti, temperatura corporea e della tana), la madre regola le funzioni biologiche del proprio cucciolo (l’attività cardiaca e respiratoria, il ciclo sonno-veglia, la produzione di ormone della crescita, la termoregolazione corporea, la stimolazione vestibolare) favorendo uno sviluppo graduale di capacità regolatrici autonome. In questo modo la madre agisce da “regolatore biologico e comportamentale” [Hofer 1978], che permette

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L’acquisizione di una regolazione psicosomatica efficace e indipendente, consentendo di organizzare gradualmente le esperienze corporee integrandole con gli altri aspetti del Sé.

La tendenza a utilizzare regolatori esterni delle emozioni e dei loro correlati fisiologici si manifesta comunemente anche nell’essere umano e non assume necessariamente un significato patologico. Basti pensare al bambino che si succhia il pollice o che abbraccia un pupazzo quando va a letto. Nella prima infanzia queste attività aiutano a regolare gli stati emotivi disturbanti (ad esempio la separazione dalla madre) e allo stesso tempo contribuiscono allo sviluppo di una rappresentazione autonoma del proprio Sé. La psicoanalisi ha studiato questi fenomeni nella prima infanzia parlando di oggetti transizionali (Donald Winnicott), oggetti precursori (Renata Gaddini) e oggetti-sensazione (Frances Tustin).

Anche gli adulti utilizzano condotte per calmarsi, eccitarsi o pensare ad altro, senza ricorrere ai processi psicologici necessari per l’elaborazione simbolica e cognitiva. Nei momenti di nervosismo si morde una matita o ci si mangia le unghie, si beve caffè per essere più concentrati, una camomilla o una tisana per calmarsi, si fa un bagno caldo o ci si sottopone a un massaggio per rilassarsi, si fa esercizio fisico per sfogare la tensione, si prega per rasserenarsi, si legge un libro o si ascolta musica per distrarsi, si guarda un film giallo per eccitarsi, ci si masturba o si fa sesso per ridurre l’eccitazione.

La carenza di capacità riflessive, però, porta alcune persone a utilizzare in modo compulsivo, intensivo e continuativo comportamenti sempre più estremi nel tentativo di regolare e controllare le emozioni che non possono essere sufficientemente mentalizzate. Le attività che assumono più frequentemente questo significato sono: fumare, bere alcolici, assumere farmaci o droghe, mangiare eccessivamente (come nella bulimia) o troppo poco (come nelle anoressie restrittive), attuare comportamenti pericolosi (guida spericolata), dedicarsi ad attività fisiche, sportive o sessuali intensive ed estreme, allo shopping compulsivo, al gioco d’azzardo (anche tramite le slot machine o il computer), all’utilizzo eccessivo di videogiochi e di internet (frequentazione compulsiva di chat, blog o siti pornografici, internet addiction disorder), a comportamenti antisociali distruttivi, violenti e gratuiti (come il bullismo o il vandalismo), ricorrere in modo inappropriato alla chirurgia estetica o a tatuaggi, piercing e cicatrici ad uso decorativo, oppure procurarsi volontariamente lesioni corporee (tagli, graffi, morsi, ematomi, automutilazioni) [Caretti e La Barbera 2005; Baldoni 2010; Pani e Sciuto 2014].

Questi comportamenti patologici compulsivi, sempre più frequenti tra gli adolescenti e i giovani adulti e non solo nei malati psichiatrici o negli emarginati, svolgono una funzione di controllo delle tensioni emotive disturbanti che non possono essere regolate adeguatamente con il solo pensiero (angoscia, paura, depressione, rabbia, eccitazione sessuale, senso di impotenza, di

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Vuoto, di noia), in quanto sollecitano reazioni corporee e tensioni emotive opposte ed estreme (eccitazione, paura, euforia, dolore fisico, fame, sazietà, ottundimento). Questi stessi atteggiamenti costituiscono importanti fattori di rischio nei confronti delle malattie oltre che essere caratteristici dei disturbi del comportamento alimentare e delle dipendenze patologiche (addiction disorders). Il trattamento di questi disturbi, quindi, dovrebbe riguardare non solo un intervento che interrompa la dipendenza da una specifica attività o sostanza (ad esempio un percorso terapeutico di comunità), ma, una volta risolta la dipendenza fisica, uno specifico trattamento psicoterapeutico che aiuti la persona a sviluppare maggiori capacità riflessive e ad acquisire facoltà psicologiche alternative all’utilizzo compulsivo di regolatori esterni delle emozioni.

Un esempio clinico

Diana ha quasi cinquant’anni, è una donna bionda, alta, di corporatura robusta, ancora piacente. Il volto sorridente e gli occhi azzurri trasmettono simpatia. Si veste in modo curato e abbastanza elegante, senza essere pretenzioso. L’atteggiamento è abbastanza sicuro di sé, il portamento eretto e la voce impostata, come se si volesse dare un po’ di tono, senza manifestare alcuna arroganza.

Si è rivolta a me consigliata dal medico di famiglia, perché da alcuni mesi si sente inutile, triste, impotente. Considera la sua vita un fallimento, nonostante sia apprezzata sul lavoro e i propri familiari stiano bene. Recentemente ha sofferto di attacchi di panico. Anche in passato aveva manifestato crisi di ansia ed era stata in cura da uno psichiatra che le aveva prescritto un antidepressivo. Dopo due mesi, sentendosi meglio, aveva sospeso la terapia e iniziato una relazione sentimentale con un collega di lavoro sposato. Dopo la sospensione della terapia, però, ha ricominciato a sentirsi male. Una delle sue sorelle, che è medico, le ha consigliato di sottoporsi a una psicoterapia cognitivo-comportamentale, che è stata protratta per mesi senza alcun risultato.

Diana lavora come responsabile di un ufficio di un grossa azienda commerciale ed è molto stimata per il proprio lavoro. E’ sposata da 20 anni, ha due figlie di 17 e di 9 anni, che giudica <<a posto, fin troppo mature>>. Il marito è un commerciante di preziosi ed è spesso via da casa. Diana confessa che il loro rapporto è un “disastro”, perché lui è molto infantile e la lascia completamente sola nella gestione dei figli e della casa.

Alla fine della prima seduta faccio osservare che la terapia farmacologica era stata interrotta troppo presto e che il trattamento cognitivo-comportamentale, nel suo caso, sembrava avere un effetto limitato forse perché troppo focalizzato sui sintomi ansiosi, mentre i problemi di cui mi parlava sembravano più complessi. Le propongo di sottoporsi a una psicoterapia ad orientamento

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Dinamico a una seduta la settimana, integrata a una ripresa della terapia farmacologica. La paziente accetta con convinzione.

La seduta successiva Diana dice di sentirsi molto meglio, anche se non crede sia l’effetto delle medicine. Permangono timori accompagnati da sentimenti di disistima e autosvalutazione. Mi confessa che vorrebbe separarsi dal marito, ma che non si sente sufficientemente forte.

Diana racconta di essere cresciuta in un piccolo paese di campagna e di avere tre fratelli (due sorelle più anziane e un maschio più giovane). La sua era una famiglia era molto religiosa e rigida sul piano educativo. La madre e il padre erano i maestri elementari del paese e i figli li avevano avuti come insegnanti. In seguito tutti i fratelli di Diana hanno manifestato problemi psicologici che hanno richiesto l’intervento dello psichiatra. Il fratello, nonostante 10 anni di psicoterapia analitica a 3 sedute la settimana, non è mai riuscito ad avere una relazione sentimentale ed è rimasto a vivere in casa con la vecchia madre. Una sorella ha sviluppato una dipendenza compulsiva dall’attività sportiva e ogni giorno corre a piedi per decine di chilometri, nonostante che questo abbia compromesso la sua salute fisica.

Diana ha pochi ricordi della propria infanzia e pensa di avere trascorso l’adolescenza senza particolari problemi. Dopo un breve fidanzamento, a 20 anni ha sposato quello che attualmente è suo marito, un coetaneo dello stesso paese. La paziente ammette di essersi sposata per uscire di casa, non per amore, in realtà nutriva simpatie per un altro ragazzo che però non piaceva ai genitori. Il padre di Diana era da tempo affetto da una neoplasia gastrica, ma la mattina stessa del giorno del matrimonio le sue condizioni peggiorano e muore. Diana vorrebbe rimandare la cerimonia di nozze, ma le viene impedito dalla madre e dal parroco che le ricordano che <<il matrimonio è un sacramento, non un gioco!>>. Subito dopo la cerimonia parte per il viaggio di nozze e alcuni mesi dopo inizia a sua volta a temere, senza motivi reali, di essere malata di cancro.

Da allora il rapporto con il marito è divenuto sempre più problematico; la confidenza e l’intimità di coppia sono pessimi. Diana, che continua la relazione clandestina con l’altro uomo, vorrebbe separarsi, ma teme di non essere abbastanza forte per gestire questa responsabilità, inoltre avrebbe tutta la famiglia contro. Trascorso il primo anno di terapia Diana inizia a saltare le sedute e un giorno mi telefona annunciandomi di volere interrompere perché si sente decisamente meglio.

L’anno successivo Diana viene ricoverata in casa di cura per alcolismo. Nei mesi precedenti si era separata dal marito e poco dopo era morta la suocera, che era stata di grande aiuto nella crescita delle figlie e che era vissuta dalla paziente come una figura di attaccamento compensando le carenze del marito e della propria madre. Da allora Diana aveva iniziato a bere e il problema era in poco tempo divenuto così grave da compromettere seriamente le sua capacità lavorative

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Rischiando il licenziamento. Durante il ricovero, che durerà un mese, chiede di potere parlare di nuovo con me.

Appena dimessa Diana riprende la psicoterapia, integrata con una terapia farmacologia per l’alcolismo. Da quel momento l’atteggiamento di Diana nei miei confronti è cambiato. Si comporta in modo più autentico, a volte piange, e non ha più timore di presentarsi così fragile, parlandomi delle sue paure e dei suoi comportamenti infantili. Si percepisce che sono diventato per lei un riferimento sicuro, una figura di attaccamento vicaria che le consente di confidarsi sentendosi protetta e non giudicata. Ora che non è più assieme al marito, Diana sente la responsabilità di madre tutta su di sé e questo la opprime. Continua a frequentare il proprio amante, ma anche questo la fa sentire molto in colpa. La sera non vede l’ora che le figlie si assentino per rifugiarsi nel proprio letto e consolarsi abbuffandosi di gelato e di biscotti. Nel frattempo è aumentata vistosamente di peso (almeno 20 kg.). Mi racconta che da tempo si è rivolta ad agenzie per iniziare programmi di dimagrimento e di cure estetiche. Tra servizi, creme e prodotti vari è arrivata a spendere anche 10 volte il suo stipendio. Nello stesso periodo si è dedicata ad acquisti sconsiderati per migliorare la propria immagine (profumi, prodotti di bellezza, borse, scarpe, vestiti). Dopo avere esaurito le proprie risorse economiche si è rivolta a finanziatori che le hanno offerto soldi con interessi da strozzinaggio. In alcuni casi è arrivata a rubare dalla borsa della madre novantenne. E’ stata scoperta e ora tutta la sua famiglia pensa che sia una ladra e un’irresponsabile.

<<Non riesco a controllarmi, dottore! Non riesco a frenarmi ed è più forte di me. Mi vergogno molto di essere così, come posso essere un buon esempio per le mie figlie!>>. Diana mi racconta di questi suoi problemi piangendo disperata e mi confessa che è la prima volta che rivela a qualcuno questa sua fragilità. Si aspetta che possa capirla, perché, al contrario della madre, non l’ho mai fatta sentire colpevole per i suoi comportamenti.

Facendo riferimento alla recente letteratura sulle psicoterapie dinamiche basate sui costrutti di attaccamento e di mentalizzazione [Bateman, Fonagy, 2004; Allen, Fonagy, 2006; Wallin, 2007; Allen, Fonagy, Bateman, 2008; Baldoni, 2010, 2013] iniziamo a lavorare focalizzandoci sulle caratteristiche delle sue emozioni, in particolare suoi vissuti di impotenza e di inadeguatezza. Aiuto la paziente a identificare meglio questi sentimenti e a dare significato alle proprie reazioni nelle diverse condizioni esistenziali (nei rapporti con i colleghi di lavoro, con le figlie, con la propria madre e i propri fratelli, con l’amante). Le emozioni disturbanti, che Diana solitamente affronta adottando comportamenti che mitigano la tensione mentale (bere alcolici, riempirsi di cibo, sottoporsi a trattamenti estetici o dimagranti, spendere soldi in modo compulsivo), cominciano a essere riconosciute, raccontate e differenziate nella loro specificità (rabbia, paura, vergogna, delusione, vulnerabilità, desiderio sessuale). In questo modo assumono un valore più psicologico

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Che può essere comunicato e condiviso all’interno della nostra relazione, facendola sentire capita e permettendole di attribuire un significato più psicologico alle proprie esperienze. Anche il modo in cui vive le altre persone si modifica. In particolare diventa consapevole che le proprie figlie le vogliono bene e hanno ancora bisogno di lei come madre, ma spesso sono deluse e arrabbiate perché le coinvolge continuamente nei propri problemi costringendole ad assumersi responsabilità improprie.

A poco a poco l’alleanza terapeutica e la funzione di base sicura svolta dalla cura si rafforzano. <<Non vedevo l’ora di venire, oggi, temevo di non farcela ad affrontare quello che mi capita e di stare male di nuovo.>> Abbiamo molte occasioni per parlare della nostra relazione. Diana riconosce di avermi raccontato in passato molte menzogne, perché si vergognava e temeva di essere giudicata. Altre volte si comportava volutamente in modo trasgressivo (ad esempio bevendo un po’ di vino o spendendo soldi inutilmente) proprio per farmi un dispetto. In questo modo mi voleva provocare e farmi preoccupare, perché mi viveva come sua madre, che non poteva capirla e accettarla, ma le prestava attenzione solo criticandola.

Il rapporto con la madre emerge sempre più come problematico. La madre ha sempre assunto un ruolo dominante e controllante nei confronti di tutta la famiglia (padre compreso), giudicando in modo rigido e stereotipato ogni comportamento dei figli (<<Ricordatevi che tutti gli uomini sono dei porci, vogliono solo una cosa!>>). Diana nei suoi confronti è molto ambivalente. Ancora adesso la cerca in continuazione per ottenere consigli, rassicurazioni e giudizi, ma reagisce in modo avvilito quando la madre la sgrida trattandola come una bambina irresponsabile. Diana arriva a mentirle in continuazione per non essere criticata e punita, ma non riesce ad immaginare una propria autonomia psicologica dalla madre e persevera nel coinvolgerla in ogni momento della propria vita.

Dopo alcuni mesi di questo lavoro focalizzato sul riconoscimento e sulla mentalizzazione delle emozioni, Diana mi racconta un episodio che mi aveva taciuto: circa un anno dopo il matrimonio era rimasta incinta di un bambino maschio. La gravidanza sembrava protrarsi normalmente, ma all’VIII mese si manifestò improvvisamente una grave gestosi che rese necessario un parto cesareo. Il bambino morì pochi minuti dopo la nascita. Negli anni precedenti Diana non mi aveva mai raccontato di questo lutto e confessò che non ci pensava quasi mai. Subito dopo la perdita del figlio, per riprendersi, Diana era andata al mare per un paio di settimane accompagnata dalla suocera (il marito era occupato per lavoro) e da allora in famiglia non si è parlato più dell’accaduto (un altro lutto irrisolto, come quello del padre). Mi confessò che sapeva che il bambino era stato seppellito in un cimitero vicino, ma che non era mai andata a trovarlo e non sapeva nemmeno dove fosse la tomba. Raccontandomi questo piangeva, ma avevo l’impressione

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Che si sentisse sollevata. Nelle settimane successive, di sua iniziativa, Diana si recò più volte al cimitero per portare fiori sulla tomba del figlio. Di queste visite parlava in terapia e sembrava più serena.

Il caso di Diana esemplifica i concetti espressi nelle pagine precedenti. Cresciuta da genitori poco mentalizzanti, che non riuscivano a pensare ai bisogni psicologici dei propri figli, le sue capacità di rappresentare i propri stati mentali e di regolare le emozioni era molto scarsa. Per la scarsa consapevolezza dei propri bisogni e il mancato conforto ed aiuto da parte dei familiari, i lutti che l’avevano colpita (la morte del padre, del figlio e della suocera) erano rimasti irrisolti, pregiudicando ulteriormente le sue condizioni mentali. Quando si sentiva sola, depressa, colpevole o impotente, Diana controllava gli affetti disturbanti ricorrendo a regolatori esterni: eccedeva nell’alcool, si abbuffava di cibo, spendeva soldi in profumi, cosmetici o vestiti, si dedicava alla cura ossessiva della propria immagine nel tentativo di modificarla. Questo attirava l’attenzione dei suoi familiari e le procurava un sollievo transitorio, ma pregiudicava la sua vita sul piano della salute, relazionale ed economico. Una psicoterapia focalizzata sulla definizione, espressione ed elaborazione delle emozioni è stata risolutiva. Oggi Diana non assume psicofarmaci, non beve alcolici, è dimagrita ed è divenuta più responsabile nella gestione del proprio denaro. Nel frattempo la figlia maggiore si è sposata e ha avuto due figli. Dopo la nascita del primo nipote, Diana ha lasciato l’amante e si è dedicata con soddisfazione al proprio ruolo di nonna. Ogni due o tre mesi mi viene a trovare per raccontarmi dei propri progressi e per sentire la mia presenza, qualora avesse ancora bisogno di me.

Si ringrazia Giuseppe Di Pellegrino, del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna, per gli amichevoli e preziosi consigli

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